CALMA PIATTA
Si trovava lì, davanti a quell’aliscafo che detestava perché l’avrebbe riportata a casa.
Il sole morbido del mattino le accarezzava le gambe.
Cercava di non pensarci fissando le pile di giornali portati sull’isola con un carrello della spesa e i pacchi che sulla pezza di carta riportavano con un corsivo elementare la scritta Alicudi.
Si sentiva un po’ come quei pacchi, era arrivata lì rattoppata alla buona con dello scotch da quattro soldi, un po’ ammaccata, e una volta appoggiata sull’isola si era aperta e aveva mostrato a tutti il suo tesoro.
Adesso però quel pacco aperto tornava dove tutto aveva avuto inizio, o forse no.
L’isola le era cresciuta dentro, le albe e i tramonti erano entrati col suo benestare dagli occhi e le scorrevano nel sangue.
Gli isolani si erano stupiti della sua partenza: «che fai te ne vai? E quando torni?» Era parte di quel piccolo paradiso dal primo istante in cui ci era arrivata. In poche ore le sue origini avevano finalmente trovato respiro e iniziato a mettere le radici come i suoi amati fichi d’india che ogni volta osservava con complicità e serenità, perché conosceva quella capacità di trovare la stabilità nella roccia scoscesa fino al mare, conosceva il segreto della bellezza che brucia sotto il sole, specchiandosi nell’acqua.
Apparteneva all’isola e l’isola le apparteneva, sentiva senza ansia che quel legame non aveva bisogno di sforzi, le sue emozioni si attestavano su una calma piatta proprio come il mare che stava navigando.
di Ilaria Piva
E IMPARI A TOGLIERE
In primis togli tutte le scarpe che non ti servono e tieni quell’unico paio che poi sono le più comode per salire e scendere le scalinate.
Poi togli i vestiti inutili, i gioielli, il trucco, le borse. Cammini sempre con la sporta di stoffa… comodità.
Poi ti togli i pesi di dosso… Meno ne hai e meglio è.
Quindi capisci che il segreto della vita è la leggerezza.
Poi togli le persone che non hanno niente da dirti e da darti, che ti fanno perdere solo tempo, quelle che non guardano con i tuoi stessi occhi.
Capisci che le cose fondamentali sono gambe buone, mani forti e spalle larghe.
Riscopri che la cosa che ti interessa di più dell’estate è se al bar sono arrivati finalmente i gelati, se pioverà perché altrimenti devi annaffiare l’albero di limone, se il libro che ti fa compagnia basterà fino alla prossima settimana.
Aspetti ogni giorno di vedere alba e tramonto perché sono parte delle tue giornate. Nel mezzo non si può sapere quello che accadrà.
Si vedrà
L’ATTIMO PRIMA
Ma esistono anche i silenzi dell’attimo prima: quello prima che la zappa cada sulla zolla, quello prima che lo scecco ragli sull’infinito, quell’attimo muto di coscienza aurorale, quello prima di una notizia trasmessa e quindici inventate, quell’attimo di silenzio prima che l’ostia passi dal palato all’intestino e la fede crolli, il silenzio dell’attimo prima che il bottone della camicetta finisca sotto la poltrona e ci si baci. ecco, l’attimo dopo torneremo tutti ad essere mortali, raccoglieremo questi silenzi, li conserveremo e li venderemo in cassette.
Tanto al chilo.
M
Alicudi: “tutto sto casino, i malumori, non ci parliamo più, le amicizie rotte, perdute, disprezzate, i problemi insormontabili, vai in analisi? Non vai in analisi? Starò bene vestita così? Cazzo sei grassa, sei vecchia, ormai che vui’ fa cchiu? Tutto sto putiferio di pensieri che mi hanno paralizzato, davanti alla porta di casa, un piede dentro e uno fuori, per poi scoprire che alle isole non gliene frega niente di me, loro sono belle e vincenti, manco mi guardano e nemmeno mi ascoltano se frigno da sola. Gli scogli mi hanno insegnato a fregarmene di tutto. Non è la testa che deve vincere, deve vincere il cuore”
A M., ricordandola con amore
UNA FINESTRA SU ALICUDI
Ti vedo dal mio balcone, lontana ma non troppo come l’unico scoglio in mezzo al mare a cui aggrapparsi.
Chiara, definita e dettagliata nelle giornate limpide e azzurre, con le case appoggiate sul tuo ripido fianco destro che sembrano stare lì contro le leggi della natura, così come i sogni sembrano reali nelle giornate di animo sereno e realizzabili contro le leggi del mondo.
Lo scirocco porta via i dettagli ma resta la tua forma simmetrica, i dettagli spariscono come se non si avesse abbastanza energia per vederli.
Nei giorni di tempesta ti nascondi dietro il grigio del cielo, non ti vedo ma so dove sei e devo solo aspettare che torni il sereno per vederti riapparire.
UN PUNTINO NEL MARE
C è questo puntino di terra nel mare, dove la vita sembra scorrere solo da un lato e la gente che ci vive si ricorda di te dopo dieci anni, come se ti avesse incontrato il giorno prima.
Come se il tempo non esistesse. O meglio, come se fosse fermo.
Qui le donne un tempo volavano.
E la terra sembra abbia fatto di tutto per non essere per tutti – nessuna comodità, niente sabbia, scalini fantasma.
Ma quella terra ti riconosce, e se a tua volta ti riconosci in lei ti accoglie regalandoti meraviglie – bioluminescenza, noci di mare, granchi giganti, pesci neri che nuotano con te, campi sterminati di felci, piante bicolore allucinogene. E ti regala incontri.
Si dice che Alicudi si ama o si odia, e se si ama è un amore immenso, viscerale. Ed è ricambiato.
Esistono posti a cui appartieni.
CALCE GIALLA
Non posso raccontare il profumo della parmigiana di Donatella e l’amore incondizionato del suo cane Gonzales che la segue dappertutto.
Non posso raccontare della coperta di stelle che ogni notte avvolge l’isola, tantomeno del blu del mare quando arrivi sopra in cima, dove puoi raccogliere le more.
Non posso riprodurre il silenzio che si sente quà in alto, dove riesci a percepire anche il rumore delle onde più lontane.
Non posso raccontare della calce gialla come il sole o blu come il mare che rinfresca le case.
Non posso raccontare delle ore che un bambino passa assieme al suono cane bighellonando sulla banchina il pomeriggio quando fa caldo.
Non voglio raccontarvi delle chiacchiere stanche al bar Airone, quando la giornata finisce e il cielo inizia a scurire.
Non voglio raccontarvi di come gli occhi si perdono sulle terrazze di fichi d’India sterminate.
di Ilaria Piva
U TILARU
“C’è una donna che ti aspetta nella casa della Tonna”, le dissero durante i primi giorni del suo trasferimento su uno Scoglio perso nel blu.
Due anni prima, dopo una breve vacanza, aveva lanciato all’Universo (e alla dirigente) la richiesta di voler insegnare nella minuscola scuola di quel posto senza strade né tempo, riuscendo di fatto ad approdarvi. Nello zaino, gli scarponi, roba comoda e libri, il suo concetto di libertà. In un angolo, vi aveva riposto anche il suo sogno di cambiare lavoro.
Accompagnata da un’alba silenziosa da inizio del Mondo, quella mattina si inerpicò sui 400 gradini che portavano alla casa più a ovest dell’intero arcipelago eoliano.
Nei suoi passi c’era un’insolita impazienza. Le ginocchia tremavano e non solo per la fatica di sorreggere il corpo appesantito dall’età. Alla bocca dello stomaco, un vuoto intermittente, come una risacca interna, un’inquietudine da primo incontro.
La Maestra l’aspettava.
Era avvolta in un morbido e ampio maglione a riempire la sua magrezza che invece trapelava dai jeans stretti. Da moderna Penelope aveva barattato la veste drappeggiata, con un po’ di modernità per proteggersi dal freddo pungente dell’inverno isolano. I suoi capelli striati di grigio crescevano e basta. Lo sguardo era quello deciso e dignitoso di una vestale, custode di un prezioso insegnamento.
L’Allieva era là per quello.
Si salutarono con rispetto e poche, misurate parole. La sua voce graffiata dal tabacco, contrastava con quella dell’Allieva, trillante, quasi infantile, nonostante i suoi anni in più. Davanti a loro, sul tavolo della cucina, i fogli, le matite, gli schemi, i filati. Tutto pronto per la spiegazione: Rimettaggio, Legatura, Pedalatura, i fondamentali!
La pedalatura del “cannellato”, le stava dando del filo da torcere, quando un colpo di vento, spalancò la porta della camera attigua. Si alzò di scatto. Un dolore antico riprese a farle male, come una cicatrice sensibile all’arrivo del maltempo.
Entrò nella stanza dei telai dove avrebbe voluto entrare fin dal suo arrivo e si ritrovò avviluppata in un intrico di sensazioni remote. Barcollò. Nelle orecchie ritornò l’eco cadenzato delle raspe sui listelli di legno che si accordavano con quelli più armonici del battere del pettine sulla tela, come in una stramba orchestra improvvisata. Odori persi in chissà quale curva della memoria, tornarono alle narici: la fragranza dei trucioli del legno sparsi sul pavimento, quella del Palmolive e il tanfo proveniente da un vecchio cassone da cereali adibito a gabbia per le galline.
“Nonna, posso provare?”.
Si rivide piccola e riccioluta, seduta su una sedia accanto all’enorme telaio di legno, dentro il quale una donna minuta e ingobbita dalla tessitura di decine di corredi da sposa, ordiva metri e metri di tela, con movimenti così precisi e coordinati da sfiorare la perfezione. Ai suoi occhi sembrava una prodigiosa danza.
“Nun è cosa tua!”, non è roba per te. La sua voce aspra e autoritaria non ammetteva repliche o capricci.
Dal suo banchetto di lavoro, lo zio alzò gli occhi dal pezzo di faggio grezzo da cui stava ricavando le gambe di una sedia, ma non ebbe il coraggio di ribattere alla cognata, le cui parole aveva imparato a non contraddire.
Malgrado la ruvidezza di quella frase e le lacrime che le rigiravano negli occhi, trattenute solo dall’orgoglio, era certa già da allora, che sì, il telaio “era anche cosa sua!”. Non poteva essere altrimenti, se lo sentiva fin nelle eliche del DNA. Il nome che le avevano dato, lo stesso della nonna, le assicurava la predisposizione all’arte di danzare sui pedali di quel congegno, un’invenzione del diavolo per quanto era complesso o almeno così dicevano in paese.
Restava là per ore, ferma, in attesa che la navetta le scivolasse di mano. Quando succedeva, s’infilava nel telaio, prendeva l’attrezzo finemente intagliato e glielo porgeva da sotto i licci. Come fosse un servigio dovuto, nemmeno la ringraziava. Allora, si faceva ancora più minuta e discreta per non intralciare i movimenti o per paura di essere allontanata. Intorno a loro, un silenzio di chiesa, rotto solo dai rumori degli attrezzi e dal sommesso chiocciare delle galline.
“Non essere così severa con te stessa! Sei attenta e precisa, non temere nulla!”.
La voce della Maestra, l’ancorò di nuovo al presente. Le sensazioni si fecero più vivide e libere dal peso del passato. Schiumando in lunghe onde rabbiose, il mare portava fin dentro la stanza il suo odore. Venti opposti e ostinati sferzavano la casa, ogni nuova raffica sembrava portarsela via.
Ognuna al suo telaio, ognuna al suo intreccio, restarono silenziose e calme in mezzo al disordine degli elementi a cui faceva da contrappunto l’ordine perfetto dei filati. I piedi scalzi si muovevano lievi e disinvolti sui pedali, le mani erano al sicuro nell’apertura tra trama e ordito, il battito lento e cadenzato dagli attrezzi.
La voce benevola della Maestra fermò per un attimo la danza.
“Tu dovevi tessere, Chiara. Imparerai l’armatura, che l’amore per il telaio ce lo hai già”. E tornò alla sua tela.
Aprì i licci con un movimento dei piedi, fece passare la navetta attraverso la trama e con un colpo deciso della cassa, compresse il filo su quello precedente chiudendo il tessuto.
Le restava solo una domanda: “Perché non ha voluto insegnarmi?”.
L’Allieva la consegnò al Tessitore Supremo. Ora che il telaio era stato avviato, l’Universo o chi per lui , stava già armando la tessitura di nuove possibilità.