I BOSCHI COME GIARDINI

L’acqua nelle cisterne, la farmacia in centro, l’erba tagliata (da qualcun altro), le zanzariere, le pochissime macchine in giro oltre la tua, gli aliscafi quattrocento volte al giorno, i boschi come giardini, gli antistaminici, le borracce per non inquinare, i campi coltivati, le api da rispettare, i gabbiani che fanno paura, le cantine, le uova fresche ogni mattina, i cellulari che non prendono ma tanto a che servono quando c’è il bar, le verdure di stagione, la pesca minuta e lo sport all’aria aperta, il sudore, la pelle scura.

E soprattutto l’aspettare i tramonti con emozione, invece che con preoccupazione.

Quando penso all’amore per la natura arrivo sempre a pensare, in fondo, all’amore per il dominio.
È quello che davvero ci emoziona, mi sa: la natura domata, il controllo sulle cose e sul tempo. Il poter osservare, seduti su una spiaggia nuova o una collina lontana, il buio che scende inesorabile, con la sicurezza che non ci succederà niente.

di Roberto Boccaccino

VULCANO, SETTEMBRE 1980

3 settembre 1980, a 31 giorni dalla terribile strage, con la mia bambina di neppure 4 anni transitavo da Bologna verso la Sicilia. La stazione era un luogo che – ancora attonito – cercava di dare pace e risposte ai morti e ai vivi. Eravamo dirette a Vulcano per un viaggio progettato da tempo con amici che ci avevano precedute: andavamo in vacanza mentre l’Italia intera era ferita, allibita, straziata…

Quando finalmente l’alba delineava le coste calabre, il mio animo si rasserenò: la Sicilia, mia amata terra natale, era vicinissima, potevo concentrarmi su Vulcano, isola mai conosciuta.

“È un posto assatanato” mi aveva detto chi ci aveva soggiornato. Mi chiedevo cosa veramente volesse dire e temevo che si riferisse al suo clima estremo. Chiedevo “ci sono bambini in spiaggia?” e la risposta era una risata “Cettu ca ci sunnu picciriddi e comu si scialanu!”.

Eravamo attese al molo con un dono d’accoglienza inusuale: un cestino pieno di fiori di gelsomino da annusare senza sosta per rendere meno aggressivo l’odore nauseabondo dello zolfo.  La zona del porto appariva come un girone dell’inferno dantesco: vegetazione inesistente, rocce basse gialle di zolfo, caldo feroce. Intorno a noi viaggiatori in arrivo colti da conati di vomito per l’impatto con i measmi, viaggiatori in partenza che goffamente si coprivano le natiche con indumenti di fortuna e molto imbarazzo. Gli amici, ridendo, mi spiegavano che i poveretti si erano incautamente seduti su roccette bollenti nei pressi della “fossa dei fanghi” o dove il mare in certi punti “bolle”. Ridendo e annusando quei gelsomini incrociavamo personaggi strani assai che, con ancora la maschera di argilla ben spalmata sul viso, se ne stavano beatamente seduti al piccolo bar del molo a ordinare granite per placare la sete. Mia figlia li guardava senza capire.

Quest’isola mi pareva, a voler essere generosi, più strana che bella.

Cena di benvenuto di quelle che mettono l’animo in pace col mondo, in una casa deliziosa immersa in un verde insospettabile, tra brindisi ripetuti di vini appena scoperti e mai più lasciati come Rapitalà e Regaleali e poi a letto senza sonno a contare, invece delle pecore, le stelle più brillanti e riunite in grappoli immensi, nella consapevolezza spasmodica di essere, ancora una volta, sotto un nuovo cielo eoliano, in un’isola formatasi dalla fusione di due vulcani.

Le emozioni si sprigionavano dal mio animo come le fumarole esalate dal cratere del vulcano: sono una parte di queste terre.

 Pur vivendo al nord io appartengo al sud, sono acqua, vento e fuoco – è un dato di fatto.

L’incontro con la spiaggia e il mare di Vulcano è indelebile nella memoria, ancora una volta i contrari si mescolavano: sole, luce, sabbia nera e mare scuro. Affondavo le mani in quella sabbia fine e luccicante, sempre più in profondità, quasi a ritrovare le radici da cui ero stata staccata, per tornare viscera di terra isolana, ma anche agave polposa, fico d’india spinoso, buganville setosa che decora elegante le mura scrostate di un’antica casa.

Vivere Vulcano è stato un miscuglio di elementi contrastanti, tra measmi di zolfo – odore del demonio e brulicare di stelle -sorriso divino.

Ho rivisto l’isola “assatanata” dopo molti anni; con occhi diversi ho camminato verso la “fossa” dove ci s’incontrava per spalmarci quell’argilla morbida che ci rendeva riconoscibili per poi tornare sconosciuti una volta tolta, quando ci incrociavamo per i sentieri dell’isola. Ho rivisto Vulcanello e la sua Valle dei Mostri eruttati dal Vulcano, “poverino gli facevano mal di pancia” diceva mia figlia.

Una visita breve, più formale, ma quando ho spinto in profondità le mani nella fine sabbia nera, io e l’isola ci siamo riconosciute.     

di Nuccia Venuto

SUL VULCANO

Vulcano è un ricordo di bambina ancora vivido, che porta con sè il sapore del sale aromatizzato allo zolfo.

Mentre in me si faceva largo un irrefrenabile e sconfinato amore per il mare, il più grande di tutti, quello stupore oggi è ancora limpido. 

Una piccola normanna, con costumino ed occhialini rigorosamente anni ‘80, riccioli biondi e un grande spruzzo di avventure, si affacciava nel blu sommerso e lì scopriva meravigliata un nuovo mondo.

Non so se allora iniziò il sogno, ma nitida è ancora l’immagine una volta sotto: dalla sabbia nera facevano capolino fulminei gamberi, spuntavano e poi sparivano di nuovo, uscivano chiari da quella sabbia così scura per poi rituffarvisi dentro. 

 Trenta estati dopo rivivo Vulcano con lo stesso stupore, punto di incontro tra due anime silvane. 

 Da isola a isola, una normanna non più bambina sbarca da un’avventura all’altra, sospesa fra una terra, un mare ed un cielo di nessuno, dove a parlare sono il sole ed il vento improvviso di un afoso fine luglio.

 Uniamo quelle due anime e sotto quel caldo prorompente saliamo, raccontandoci, verso il centro di quel mondo, su e ancora su fin al cratere. 

 Siamo due spiriti alla ricerca,

due bussole che sanno dove vogliono andare, senza conoscere la strada da percorrere, due bagagli colmi di entusiasmo, intraprendenza, qualche profonda delusione e poi ancora speranze e molti sogni. 

Siamo impregnate di eolite, nel bel mezzo di quel cuore pulsante. 

 La strada si inerpica e attraversa paesaggi lunari.

Tutto d’un tratto il vento salmastro si fa sulfureo. 

 Respiro pace, leggerezza, libertà. 

Intorno a noi i colori arancio azzurri del tramonto. L’orizzonte si tinge. Gli occhi si fanno ricolmi di sole e onde, il cuore vola e spumeggia. Tutto ci avvolge. 

 Sono lì, tutte e sette. Le ammiriamo una ad una. Loro sono ovunque: noi le guardiamo e loro ricambiano.

 L’amore per le isole lo porti dentro. Lo custodisci tutto l’anno, tutti gli anni.

E poi lo ritrovi lì ogni volta, il tempo passa e lui è sempre lì. 

 Nel silenzio di quel blu oltremare, le isole restituiscono pace.

E io sono lì e allora mi riconosco: sono mare nel mare.

 

di Martina Addabbo